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Dal Brasile, 4 giovani raccontano…

Riportiamo in grandi linee la testimonianza preparata da 4 giovani romani, che quest’estate sono stati in visita alla missione di Don Paolo Boumis a Itacuruba (Brasile), per la Veglia Missionaria Diocesana svoltasi a san Giovanni in Laterano lo scorso 18 ottobre. I loro nomi sono Giulia e Valentina degli Scout d’Europa e Elena ed Alessandro della Parrocchia San Policarpo.

Cosa pensi di aver ricevuto da questa esperienza?

Giulia:” Torno cambiata, torno con un cuore e degli occhi nuovi. L’amore smisurato e immeritato di quei bambini e ragazzi all’inizio mi ha sconvolto, mi sembrava una cosa impossibile, mi sembrava impossibile che proprio io potessi essere amata così. Sono riusciti ad addolcire il cuore di una ragazza che ormai non si fidava più di nessuno, e che aveva una forte difficoltà nell’aprirsi. Loro mi hanno curata. Hanno curato un cuore cresciuto in una cultura in cui si è abituati sempre a guardarsi le spalle, a non fidarsi, in cui l’egoismo purtroppo è al centro e radicato dentro ognuno di noi. Mi hanno insegnato ad amare tutti quelli che il Signore mi mette davanti, mi hanno fatto scoprire il desiderio di entrare in punta di piedi nelle vite più o meno dolorose degli altri, di come con piccoli gesti si possono fare cose immense. Mi hanno insegnato che l’amore è un dono immeritato e gratuito e che tutto quello che riceviamo lo possiamo ridonare. Mi hanno insegnato a sorridere a ogni persona che incontro per strada perché un sorriso può rallegrare l’anima, a vivere di piccoli passi, senza ansia, a non correre per assaporare ogni istante della vita, a prendermi cura dei più piccoli che mi ricordano quali sono le cose importanti e belle della vita, a vivere la povertà che mi fa scoprire dietro cosa è nascosta la vera felicità, ad abbracciare, ad amare, ad aprire il mio cuore perché ogni persona che incontro nel cammino della vita è un dono. Mi hanno insegnato che sono una missione e che quella missione, la mia vita, la posso compiere solo io.

Valentina: “Questa esperienza penso mi abbia donato moltissime consapevolezze, a partire della consapevolezza di essere amati perché si è, per ciò che si è e non per come si è.
La consapevolezza che si può creare una Famiglia, che è molto più di un fisiologico legame sanguigno, con due sorelle, un fratello ed un papà spirituale solo grazie ad una complicità dovuta dal fatto che si cammina tutti insieme nella stessa direzione, con lo stesso obiettivo, per la stessa Missione. La consapevolezza che in Giappone quando un vaso di coccio si rompe viene riparato con una colata d’oro, facendo sì che più si danneggia e più diventa bello. Prendere coscienza che donarsi è un gesto d’Amore gratuito, che chi meno ha più si dona, e che donarsi vuole essere un’azione senza aspettative, altrimenti ci si presta. Sapere, vedere e toccare che nonostante la lingua, le differenze culturali, nonostante moltissimi sassi si possano costruire ponti solidissimi. La consapevolezza che c’è un’unica bandiera, in tutto il Mondo c’è una sola Umanità’. E alla fine di tutto la consapevolezza che ‘Lar é onde o coração está”.

Alessandro: “Penso di aver ricevuto più di quanto io sia stato in grado di dare e trasmettere. L’esperienza è stata forte ma al tempo stesso frizzante e gioiosa. E’ straziante sapere che ci troviamo nello stesso mondo ma con due modi di vivere totalmente opposti. Alla frenesia, loro preferiscono la gioia, all’astio contrappongono innumerevoli abbracci. Essersi sentiti parte di loro in così poco tempo è stata la gioia più grande. Soltanto imparando ad essere gli autori dei loro stessi successi, riusciranno ad uscire da questa sgradevole situazione. E’ stata una palestra di vita, ogni ragazzo dovrebbe mettersi lo zaino in spalla e provarla, ne uscirebbe certamente migliorato. Il bene si fa ma non si dice, dovrebbe valere per tutti, adulti e non, ne avremmo tutti benefici.”
Elena: “Raccontare l’esperienza del Brasile non è per me facile, non perché non sia stata “significativa” ma poiché la paura di cadere nel banale non riuscendo a trasmettere agli altri quello che realmente si è provato in determinati momenti potrebbe risultare quasi come una “sconfitta”. L’esperienza è stata per me un’avventura unica grazie alla quale ho avuto modo di mettermi in gioco e confrontarmi con una realtà del tutto nuova, diversa. Un’avventura in grado di trasmetterti tanto non chiedendo niente indietro. Ti ritrovi tutto a un tratto travolto dagli abbracci, dall’amore e dal sorriso contagioso di queste persone che ti sono grate per il semplice fatto che tu sia lì con loro. Sono tornata cambiata, ho imparato a saper dare valore alle cose a cui bisogna dare realmente un peso, alle cose che contano e che molte volte ci ritroviamo a dare per scontate, quasi come tutto ci sia dovuto, tutto sia meritato (ma così non è). Ringrazio il Brasile e gli abitanti di Itacuruba per avermi regalato emozioni, gioie e per avermi mostrato anche le situazioni più dolorose e tristi. Vorrei concludere con l’augurio e la speranza, che ho ritrovato negli sguardi e nei volti di quei bambini, che le cose un giorno cambino, verso un futuro migliore. ”

Quale momento più intenso è scolpito nel tuo cuore?

Giulia: ”Non dimenticherò mai gli occhi pieni di entusiasmo e di stupore dei ragazzi a cui insegnavamo cose nuove, la preoccupazione dei capi di proteggere i bambini in Chiesa durante un arresto, i pianti di quando ce ne siamo andati e la frase continua “Prometti che tornerai!”, i balli e le danze di quando siamo arrivate, le case fatte di fango, l’umiltà e la pulizia di case di famiglie che non hanno molto, l’ospitalità e generosità smisurata, la cura e l’amore di una donna anziana che si prende cura del figlio disabile che vive in condizioni terribili, il modo diverso di pregare, i ragazzi che a 16-18 anni hanno dei figli che però, con tutti i loro problemi, cercano di amare, la curiosità di scoprire cosa c’è lì dove non possono andare e la bellezza di riuscire a comunicare anche non sapendo la lingua.
Di momenti forti e intensi ce ne sono davvero troppi, ma sicuramente quello che non scorderò mai sono i pianti di una bimba durante un’attività. Io non sapevo che fare, piangeva e con i problemi della lingua non riuscivo a comprendere quale fosse il problema. Poi capii. Erano pianti per la fame: per venire agli scout era venuta direttamente in sede dopo scuola e non era riuscita a mangiare nulla. Di pianti durante la mia esperienza da capo ne ho asciugati, ma pianti dovuti alla fame mai… Non so dove mi porterà la vita ma ti prometto Itacuruba che resterai sempre nel mio cuore.

Valentina: “Sicuramente non si può parlare di un momento più bello, ma semplicemente di una catena di eventi unici ed irripetibili, scolpiti nel nostro pezzettino di cuore che abbiamo lasciato ad Itacuruba.
Tante sono le cose che si potrebbero raccontare, a partire dall’accoglienza, dalla gioia dell’arrivare in un posto straniero e sentirsi a Casa solo perché cinque bambine ti dicono in italiano:
Siamo felici di darti il benvenuto nella nostra città,
Speriamo che vi piaccia la nostra cultura,
Sarà divertente imparare da voi,
Sfruttate al massimo il tempo che trascorrete con noi.
Benvenuti nella nostra città, il mio nome è Raiki!
Sentir dire ad una ragazza di essere contenta che la “gente famosa” fosse andati a trovarli è sicuramente un altro episodio che mi porterò per il resto della mia vita.
Il momento in cui ti rendi conto di come la Promessa ed il relativo canto abbiano la stessa musica e gli stessi testi in tutto il mondo, proprio a rappresentare come il Movimento Scout rappresenti con efficacia i suoi principi di uguaglianza e dell’esistenza di Una Sola Umanità.
Andare a scuola per parlare e sentirsi chiedere se è vero che in Italia tutte le case sono fatte di pietra, perché lì villaggi costruiti con il fango non scarseggiano.
Molte sono le occasioni in cui mi sono ritrovata piacevolmente sorpresa, quasi spiazzata, da un punto di vista che guarda all’altro sempre con amore e con un senso di gratitudine.
C’è un evento in particolare che però voglio raccontare:
Avventura Senior 24-26 agosto 2018. Isla de Itamaraca. Ultimo giorno, si scende dalla collina su cui ci si era accampati per andare in spiaggia. Sei squadriglie (o se vogliamo essere precisi Patrulha) composte da più membri di gruppi diversi del Pernambuco. Nella squadriglia Fulni-O c’è Matheus, uno scout di 17 anni del gruppo Escoteiros do São Francisco (103-PE) che nella prima infanzia ha contratto la Poliomelite, una patologia che comporta effetti devastanti sui muscoli degli arti, lesioni al midollo spinale, l’utilizzo del catetere ed una serie di altre condizioni invalidanti. La sua è una patrulha particolare: vengono tutti da gruppi differenti, si sono appena conosciuti, sono un po’ svampiti, tipi particolari, ma che ti fanno morire dalle risate, persone semplici, che anche se sono sempre gli ultimi gioiscono sempre di avercela fatta.
E’ il terzo giorno, Matheus ha camminato finora con le sue gambe e le sue stampelle, che ha imparato ad usare fin da quando aveva 2 anni. Siamo quasi alla fine, ma è stanco.
Ecco che vedo forse la scena più bella della mia vita: capo e vice prendono uno l’inizio ed uno la fine del guidone, su cui si siede il piccolo Matheus che pesa appena 40 chili, uno squadrigliere gli tiene le stampelle, ed è così che finiscono l’ultimo pezzo di strada, cantando tutti insieme ed urlando “Patrulha Funi-O”.
Io un Amore così grande non lo avevo mai visto.”

Alessandro: “Erano le 9 del mattino, faceva già caldo, eravamo appena arrivati dopo un viaggio lungo 36 ore, tutto mi aspettavo fuorché uno shock del genere. Entrammo nella scuola in punta di piedi, tutti assonati, non avevo ancora idea di quanto potessero essere affettuosi quei bambini. Gli chiedemmo se avessero qualche fantasiosa curiosità riguardo l’Italia. Una di loro ci chiese: “Da voi esistono veramente le case di pietra?”. Ecco da quel momento è cambiato tutto, mi sono sentito piccolo in un mondo troppo brutto per essere vero.”
Elena: “Tanti sono i ricordi, gli episodi, i volti che porto ancora con me. Forse più di tutti però quello di una bambina di soli 11 anni, che una sera si presentò verso quasi mezzanotte, sola e impaurita, davanti al cancello di casa di Don Paolo. Quella scena la ricordo ancora, la ricordo bene perché c’ero solo io, in quel momento, in giardino. Mi avvicino, anche io, in un primo momento timorosa, cerco di capire cosa stesse succedendo. Chiedeva dell’acqua. Aveva sete. Vado allora in cucina prendo un bicchiere d’acqua e dal cancello glielo passo. Un episodio quasi indescrivibile per me, questo “muro” che ci divideva, i suoi occhi, quella richiesta che all’apparenza può sembrare così scontata… questo fu uno degli ultimi episodi, ma sicuramente uno dei più significativi. Mai dimenticherò il suo viso, ancora troppo innocente per una sofferenza così grande.