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In Nigeria, dove la Chiesa fiorisce sull’ecumenismo del dolore

Dal sito del settimanale diocesano Romasette.it: colloquio con monsignor Ignatius Kaigama, arcivescovo di Jos e presidente della Conferenza episcopale nigeriana, di passaggio a Roma. Articolo di Federica Cifelli

Il presidente della Conferenza episcopale Ignatius Kaigama racconta la realtà di una Chiesa in cammino, nonostante la violenza degli integralisti di Boko Haram

Parla con voce ferma e occhi limpidi monsignor Ignatius Kaigama, arcivescovo di Jos e presidente della Conferenza episcopale nigeriana, a Roma con il cappellano della comunità nigeriana, don Joseph Akaashima, nella Capitale dall’autunno scorso. E racconta di «una tragedia grande»: le donne, i bambini, i ragazzi sono morti e muoiono, riferisce, «a causa della ribellione del gruppo fanatico islamista di Boko Haram», che solo due giorni fa ha attaccato per 4 ore il villaggio di Dalori, nel nord est della Nigeria, facendo oltre 80 vittime, a soli 4 chilometri da Maiduguri, dove risiede il quartier generale delle operazioni contro Boko Haram. «Fanno tanti danni: alla gente, ai villaggi, alle proprietà delle persone. Abbiamo sofferto molto. Ma è importante andare avanti sempre, con la speranza che la situazione migliori».

E la speranza ora, per la Chiesa e per tutta la Nigeria, porta il nome di Muhammadu Buhari, ex generale, musulmano, eletto alla guida del Paese nel marzo scorso. «Con lui – osserva il presule – confidiamo che si possa fare qualcosa per creare una situazione di sicurezza. Ha mostrato una determinazione nuova». La Chiesa lo ha appoggiato nel suo quarto tentativo di aggiudicarsi la presidenza, perché «la Chiesa appoggia chi fa bene: anche se è musulmano, troviamo sincerità nel suo atteggiamento, nella sua volontà di confrontarsi con determinazione con Boko Haram». Muovendosi soprattutto su due fronti: la guerra contro la corruzione e la guerra contro questi estremisti. «Ci fa piacere avere un presidente focalizzato su queste due cose».

Nel frattempo, si è allargato il bersaglio dei miliziani della setta integralista. «All’inizio – osserva monsignor Kaigama – attaccavano solo i cristiani, ora colpiscono anche le strutture del governo, la polizia, i militari, le banche, i mercati. Piano piano hanno cambiato strategia: tutti quelli che non sono con loro sono nemici. Sia cristiani che musulmani». Una rivendicazione che si basa sulla pretesa di essere gli unici a vivere il Corano in modo retto: in altre parole, «per essere veri musulmani bisogna essere dalla loro parte». Per il presidente dei vescovi della Nigeria, sta qui la loro perdita di razionalità: «Non usano la religione per servire il bene della comunità ma come strumento di violenza. Il loro atteggiamento è come quello delle bestie: non sanno chi è un bambino, chi è una donna. Per loro tutti gli innocenti sono colpevoli».

In questa situazione per la Chiesa la cosa più importante è «la vicinanza a coloro che soffrono». Musulmani o cristiani che siano. «Preghiamo perché la situazione cambi e predichiamo di non usare la violenza. Stimoliamo il governo, il presidente, i militari a fare quello che possono. Più di questo non possiamo fare». Nelle parole del presule c’è tutto il dolore di un popolo. La gente, spiega, «viene da noi quando non ha da mangiare, non ha casa, è dispersa. Il primo luogo che cerca è la chiesa». Come a Yola, la Capitale di Adamawa, nel nord est della Nigeria, dove «in questo momento si trovano insieme nella cattedrale tante persone: protestanti, cattolici, musulmani. Sanno che lì, all’interno di quella Chies madre, sono al sicuro, hanno da mangiare». Monsignor Kaigama racconta di una sorta di «ecumenismo del sangue, della persecuzione»: un singolare frutto del dolore seminato da Boko Haram, che si traduce in una amicizia nuova «tra musulmani moderati, che soffrono, e cristiani che soffrono».

E la Chiesa nigeriana cresce nella fede. Il vescovo usa non a caso il termine «audacia»: «Quando il pericolo è ovunque, andare in chiesa è pericoloso. Per me, come vescovo, andare nei villaggi è pericoloso: quando esco non so cosa mi accadrà, se rientrerò a casa, ma so che devo uscire, servire la gente, perché per loro sono il segno della speranza, e quando la gente mi vede trova un incoraggiamento incredibile». Nonostante le violenze, «la fede ancora cresce, le chiese ancora sono piene, la gente frequenta le Messe, anche se sono aumentate le misure di sicurezza». Proprio per questo probabilmente le cose vanno meglio, commenta monsignor Kaigama: «Ora ad esempio non si può arrivare con la macchina fino in chiesa ma si fa un percorso a piedi tra le barriere, tra i metal detector. Chiunque entri viene esaminato». Condizioni che anche le Chiese occidentali hanno imparato a conoscere, al tempo del terrorismo globale. Eppure negli occhi del vescovo nigeriano non c’è spazio per nessuna paura. «Ora le cose vanno meglio – ripete -: prima c’era un attacco a settimana, ora sono molto più limitati, in tutte le chiese».

Lo scandisce con certezza, monsignor Kaigama: « Siamo solidi nella nostra fede. Questo resta: nessuno ce lo potrà togliere». E racconta l’Anno della Misericordia vissuto nella Nigeria bersagliata dagli integralisti di Boko Haram, così come dalla povertà e dalla disuguaglianza sociale. «Lo abbiamo iniziato nella mia diocesi con una grande celebrazione con tutti i preti, religiosi e laici, alla quale abbiamo invitato i rifugiati venuti da tutte le città vicine, i prigionieri, le vedove, i bambini in riformatorio. Abbiamo dato loro da mangiare, da vestire. Siamo partiti dalla concretezza, sperando di dare un segnale che ogni persona e ogni gruppo possa replicare». In cima alla lista delle preoccupazioni, per il presidente dei vescovi, restano «coloro che hanno sofferto per la violenza: sono molti, quasi dappertutto. Non dobbiamo andare a cercare lontano cosa fare, li abbiamo già li, dobbiamo dare la nostra attenzione a loro». Ancora, la Conferenza dei vescovi ha scritto ai governi del nord del Paese chiedendo l’indulgenza per i condannati a morte; ha invitato i laici, «che sono formidabili», le donne, i giovani a essere «creativi», a iniziare qualcosa di concreto. «I giorni della teoria – le parole del presidente – sono passati. Ora dobbiamo applicare concretamente la nostra fede alla situazione particolare. Non basta dire: sono cristiano, battezzato, mi chiamo padre Ignazio. Dobbiamo far camminare la nostra fede. È il messaggio che diamo alla gente, a tutti noi».

Il presule ricorda un proverbio nigeriano per spiegare il senso della presenza a Roma del cappellano che guida la comunità etnica: «La mano sinistra lava la mano destra e la mano destra lava la mano sinistra». Collaborazione e vicinanza, riflette, sono «indispensabili». E non solo sul piano della fede: «Se impariamo a conoscerci e a comprenderci, la tensione si riduce, così come i pregiudizi, e si fa spazio all’amicizia, alla fraternità. A una pace globale». Solo così, continua, «possiamo fare di tutto per eliminare povertà e disuguaglianza. Oggi il mondo è diventato un villaggio globale: le persone ci mostrano simpatia, vediamo che sono toccate dalla tragedia che viviamo in Nigeria. Sappiamo che abbiamo fratelli, amici, che sono con noi nella sofferenza. E questo ci fa bene».

2 febbraio 2016