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Centro Pastorale Missionario della Diocesi di Roma / Dal mondo  / lettera da floresta maggio 2016

lettera da floresta maggio 2016

Lettera di Don Paolo Boumis, missionario fidei donum della diocesi di Roma in Brasile.

Carissime e carissimi,

abbiamo da poco celebrato la Pentecoste, dono di Dio per una umanità nuova e riconciliata nello Spirito Santo che parla tutte le lingue senza creare divisioni. In questo tempo pasquale la comunità di Itacuruba ha vissuto alcune novità importanti. Tra le altre cose, abbiamo dato alla chiesa parrocchiale un aspetto un po’ diverso: in alto, al centro di tutto come dev’essere, ora c’è un bellissimo crocifisso, donato da un amico. Le immagini di Nossa Senhora do Ó, patrona della parrocchia, e del Sacro Cuore, altra devozione molto sentita, ora sono ai piedi della croce, piú vicini al popolo di Dio. Nell’assemblea dei Vescovi dell’America Latina di Aparecida, nel 2007, si era posta di nuovo molto in luce la forza della religiosità popolare. Per noi, figli di Cartesio e delle “idee chiare e distinte” anche nella fede, le manifestazioni di devozione affettiva, coinvolgente, “fisica” verso una statua, ci sembrano esagerazioni. Diamo loro, spesso da fuori, giudizi duri, senza appello. Anch’io sono stato educato in questo senso. Ma il contatto con la gente di qui e l’inevitabile confronto che devo ogni giorno fare tra la mia formazione e la realtà in cui sono immerso, mi sta facendo scoprire il cuore segreto del mio popolo. Il Brasile povero è un paese di esuli. I popoli indigeni sono ancora oggi strappati con la forza alla loro madre terra solo per scandalosi interessi economici. Le persone afro-discendenti continuano nel più profondo dell’anima, senza neanche più saperlo, a sentirsi lontani dalla madre Africa da cui i loro antenati, fino ad un secolo fa, venivano deportati nelle stive delle navi. I nordestini, cioè gli abitanti delle regioni più povere del paese, a causa del sottosviluppo, della siccità e del pregiudizio delle regioni ricche del Sud, spesso devono lasciare casa e bottega (per chi ha avuto la fortuna nella vita di avere una casa e una bottega) in cerca di lavoro e dignità verso le grandi città. L’origine delle “favelas” è tutta lì.

Itacuruba, la casa che mi ha accolto da un anno e mezzo, è la somma di tutto questo. Al dolore degli indigeni e dei quilombolas (comunità di ex-schiavi), delle famiglie sfrattate dalla mancanza di pioggia, si sono uniti, negli anni ’80 il “progresso” e la modernizzazione. La costruzione del complesso idroelettrico di Xingó-Itaparica-Sobradinho, con le sue sette enormi dighe e l’inondazione di migliaia di chilometri quadrati, provocò lo spostamento e la ricollocazione in nuovi agglomerati urbani o rurali, di circa 500.000 persone, in un’area immensa, di circa 800 km di lunghezza. Itacuruba fu completamente inondata e ricostruita dov’è ora. Dei 18.000 abitanti di allora ne restarono solo 3500. Famiglie sconvolte, tradizioni sradicate, lavoro inesistente, apatia e sconforto. Non ci fu alcuna possibilità di opporsi. Risultato: a trent’anni di distanza i vecchi muoiono in esilio, con il cuore a pezzi che è rimasto sott’acqua; gli adulti, figli della generazione della trasposizione vivono di psicofarmaci. I giovani vogliono solo andarsene altrove. E in tutto questo, laddove non entrino droga e alcool, l’unica cosa che resta per chi crede è aggrapparsi a una immagine sacra, da toccare, baciare, a cui offrire lacrime e sentimenti viscerali di amore, nostalgia e desiderio. Io non posso, come amico e pastore di questo popolo, risolvere sbrigativamente la pratica, bollando il cuore della mia gente con l’etichetta di devozionismo. Sicuramente qua e là ci sono esagerazioni e spesso manca una proposta pastorale più biblica e “aggiornata”. Ma per entrare, “chiedendo permesso” nelle case della mia gente non posso non salutare le decine di figure di santi che hanno il posto d’onore nell’altare della famiglia.

Inculturarsi è difficile. Molto difficile. Qualunque missionario deve apprendere, con dolori di parto, che generare una vera comunione con un popolo differente dal tuo, è un’opera lunga e sofferta. La nostra cultura, con i suoi valori, le sue grandezze, le sue visioni del mondo e della vita, la portiamo sempre con noi e dentro di noi. Imparare ad ascoltarla, ma senza darle troppo campo libero per non ferire, è molto complicato. Missione è spogliarsi senza snaturarci. Ascoltare senza spersonalizzarsi. Diventare poveri e “spaziosi” per far sì che l’altro si senta a casa, ma allo stesso tempo, con umiltà, portare quello che si è. Missione è incontro, ma un incontro sproporzionato, per necessità. L’Occidente, per cinque secoli ha imposto all’America Latina i suoi modelli, le sue metafisiche, le sue pratiche e le sue filosofie di vita. Da ormai alcuni decenni si sta tentando di invertire la rotta, ma non ci si riesce dappertutto e alle volte non lo si vuole proprio. Apprendere ad ascoltare non il cervello, ma l’utero di un popolo, è un’opera che ti smonta la testa ma è l’unica strada per il Vangelo. Gesù ha fatto così. “Da ricco che era” ha sposato il diverso da lui, il meno di lui, il periferico a lui, portando vita e vita in pienezza, senza violenza. Solo svuotandosi, nella kenosis, che non è solo un dato teologico, ma umano e culturale allo stesso tempo, ha parlato davvero a tutti. Non dimentichiamoci che per trent’anni non ha detto una parola. Ha solo ascoltato, facendosi obbediente all’altro, nel lavoro, nella comunità di Nazareth, nelle tradizioni, lotte, gioie e dolori della sua gente.

La lezione di inculturazione di Gesú è l’unica vera scuola di missione. Io sono solo uno scolaretto che ogni giorno si presenta alle persone di Itacuruba con fiocco e grembiule, per cominciare ad apprendere la lezione della vita, perché l’esilio finisca e si possa tornare tutti insieme nella terra promessa.

Un abbraccio.

Don Paolo

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