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“Chi sono io per meritare questo per il nome di Gesù?” Testimonianza di padre Jacques Mourad

Centro per la cooperazione missionaria tra le chiese della Diocesi di Roma

Incontro di formazione dal tema: “I cristiani in Medio Oriente: quale futuro?” del 10 novembre 2015

Trascrizione dall’audio della testimonianza di Padre Jacques Mourad, della comunità monastica di Mar Musa, sequestrato da miliziani dello Stato islamico (Daesh), in Siria, il 21 maggio 2015 e rimasto nelle mani dei suoi rapitori per quattro mesi e 20 giorni, prima di ritornare il libertà il 10 ottobre dello stesso anno.
La presente trascrizione non è stata rivista né da padre Mourad né dal moderatore dell’incontro, il giornalista Gianni Valente.

 

D: Padre Mourad, dalle sue testimonianze che ho già letto questa esperienza è stata per lei una nuova nascita. Credo sia utile che lei ci racconti in maniera semplice qualcosa di questa dinamica. Come è possibile questa esperienza? Come si può essere liberi nelle catene?

R: Dio sia con voi. Ringrazio prima di tutto la Chiesa che ha fatto questo miracolo e io mi sono salvato. Ringrazio Sua Santità il Papa per le sue preghiere, il cardinale Sandri che con il suo servizio è sempre vicino alle Chiese orientali.

Il giorno in cui mi hanno rapito, mentre ci stavano trasportando in auto sulla strada verso Raqqa, attraversando tutto il deserto siriano con Boutros (seminarista, compagno di prigionia di P. Mourad, ndr), improvvisamente un grido uscì dal mio cuore: “Sto andando verso la libertà!”. Poi con il passare del tempo pensavo: “è finita per me. non ci sarà più un ritorno”. Credevamo che ci stessero portando in Iraq. Questo grido non so da dove venisse, ma ho capito che era un invito da Dio nostro Signore a non aver paura e mi ha aiutato ad affidare il mio destino a Dio.

Quando siamo arrivati a Raqqa, ci hanno rinchiusi in un bagno, Boutros ed io, ed ogni giorno entrava qualcuno, qualche siriano, qualche saudita, qualche iracheno che ci parlavano con durezza, ci umiliavano, alcuni ci provocavano e tutti ci dicevano; “Se non vi convertite all’Islam vi taglieremo la gola!”. Senza dubbio i primi giorni eravamo pieni di angoscia, di paura, di umiliazione, tutti sentimenti negativi. Questo periodo è stato un tempo di preghiera costante. Pregavamo tutto il tempo. Non c’era altro da fare. La preghiera era per noi sorgente di forza e di pace, di fiducia che Dio non ci avrebbe abbandonato.

Pensavamo che non eravamo i primi e non saremmo stati gli ultimi ad essere martirizzati per Gesù. Anzi mi vergognavo pensando: “Chi sono io per meritare questo per il nome di Gesù?”. La mia preghiera era costante, una supplica, una domanda di perdono, di conversione, di espiazione per me e per tanti. Ho capito da dove provenisse il grido. “Andare verso la libertà” significava andare verso il cambiamento, la penitenza, la conversione. Pensavo che dopo pochi giorni sarebbe finito tutto, che ci avrebbero tagliato la gola e che sarebbe finito tutto in poco tempo. L’ottavo giorno un uomo incappucciato viene da noi, si mette sulla porta e dice i nostri nomi, poi ci chiede: “Siete cristiani?”, con il termine coranico che significa più o meno “nazareni”. Rispondiamo di sì. Entra e ci stringe la mano e dice: “Pace sia su di voi”. Mi sono meravigliato. In linea di principio loro non ci salutano perché siamo infedeli, non salutano gli infedeli. Parlo dell’ideologia dell’Isis, che ci considera impuri. Poi si siede, mentre loro in genere non si siedono con noi, perché ci considerano più bassi, inferiori. Solitamente quando ci vedevano alzare lo sguardo verso i loro capi o sceicchi, ci dicevano di metterci in ginocchio e di guardare per terra. Quell’uomo si comportava in modo diverso rispetto a tutte le altre persone. Dopo i saluti dice: “Voi siete affidati a noi, un deposito prezioso presso di noi, i nostri sceicchi vi hanno raccomandati presso di noi”. Io non capivo nulla di quello che diceva e cercavo di capire chi fosse quest’uomo. Il discorso divenne poi come quello tra due persone che si vedono per la prima volta e creano un’atmosfera rilassante. Poi io prendo il coraggio e chiedo: “Perché siamo qui?”. Mi dice: “Padre, consideralo un ritiro spirituale”. L’espressione “ritiro spirituale” è tipico dei musulmani mistici sufi, non viene usato in modo generico e il fatto che uno dell’Isis utilizzasse questa espressione fu una sorpresa. Poi se ne andò e non lo abbiamo più visto.

Da quel momento in poi ho considerato tutti i giorni della mia vita un ritiro con il Signore. Cosa più bella non c’è! Era tutto cambiato, anche il senso della mia preghiera. La preghiera di Charles de Foucauld: “Padre mio, io mi abbandono a Te…”si caricava di forza e significato per me. Tutti i giorni dal giorno in cui ci hanno rapito a quando ho lasciato la prigione il rosario mi ha accompagnato sempre. Ogni volta che pregavo il rosario, questo era sorgente di pace per il mio cuore.

Considero la mia esperienza quello che ho vissuto un miracolo con due dimensioni. La prima è concreta, è il fatto che sono libero; l’altra, che possiamo definire non diretta, è tutta la mia esperienza di mia vita religiosa dall’inizio della mia vocazione fino ad oggi.

Mi soffermo solo al periodo legato alla crisi siriana. Prima di quel periodo basta dire che sono compagno e discepolo di padre Paolo Dall’Oglio, da questo potete capire il mio cammino di prima. Durante la crisi siriana quando stavo nella città di Qaryatayn, a maggioranza musulmana, arrivarono tanti profughi da Homs e Damasco, poveri che avevano perso tutto, tanti bambini, e ci siamo ritrovati a dover fare qualcosa per queste persone. Abbiamo aperto il monastero, accolto i profughi e cercato di aiutarli in tutti i modi possibili in tutti i loro bisogni. Avevamo stretto buone relazioni con la società musulmana civile e religiosa impegnata. A Qaryatayn c’erano 5 grandi imam con i quali avevo una buona relazione che andava oltre la routine della formalità: parlavamo sempre di tante argomenti, anche teologici; siamo anche riusciti ad organizzare campi estivi per bambini musulmani e cristiani insieme. Tutte queste iniziative avevano buona eco nella città, venivano accolte molto bene dalla gente. Tutto ciò poteva avvenire anche per la ferma convinzione di alcune organizzazioni anche europee che ci sostenevano per portare avanti queste iniziative. Quindi, queste attività mi aveva fatto trovare grazia ai loro occhi. Mi piaceva tanto andare a trovarli nelle loro case, mi ci recavo spesso nelle diverse occasioni di gioia e di lutto e loro mi accoglievano, mi rispettavano mi mostravano tanta stima. Quando parlavo alla dimensione indiretta del miracolo mi riferivo al fatto che questa occasione di stare vicino a tutti ha creato una possibilità di essere veramente amici anche con persone che poi si sono armate e sono andate  a combattere nell’Isis, persone di cui ho aiutato familiari e parenti. Anche la persona stessa che è entrata nella mia stanza e mi ha sequestrato, mi ha messo in catene e mi ha portato via: due settimane prima ero nella sua casa a bere un te per cercare di risolvere un problema sul posto. La nostra presenza e tutto il cammino compiuto con la comunità locale ha aiutato in modo importante per facilitare la mia uscita, il mio ritorno alla libertà. Sono convinto di questo. Quando era in carcere questo era uno dei motivi che mi faceva ritrovare la pace: ero autentico nella mia missione e nel mio amore verso i musulmani e ho fatto qualcosa. Mi sentivo pronto per consegnare la mia vita. Certo però mi auguravo anche di trovare un sacerdote per confessarmi e liberarmi interiormente dei miei peccati.

D: Padre Jacques, fra le cose che ho letto che hai raccontato di questi mesi mi ha colpito il fatto che venivi interrogato sulla fede, anche a livello dottrinale. Mi ha fatto pensare alle passio dei primi martiri. Cosa ha significato per te dare testimonianza di Cristo anche attraverso questi interrogatori?

R: I primi giorni entra uno con un fucile, si siede, punta il fucile verso di me e dice: “Sei sacerdote vero?”. “Sì”, rispondo, e ha cominciato a farmi domande sulla Santissima Trinità, su Gesù come Figlio di Dio e sulla preghiera, sui dogmi che ci riguardano. Io rimanevo zitto con un leggero sorriso e lo guardavo lui si arrabbia un po’ e dice: “Come ? Ti ho fatto diverse domande non mi hai risposto affatto!”Iio gli rispondo: “Sono 35 anni che ho finito l’università e ho dimenticato tutta la teologia che ho imparato!”. Ho detto: “Come mi chiedi di difendere la fede mentre mi punti il fucile? Se veramente vuoi capire deponi le armi, altrimenti qualsiasi discorso è invano perché tu non sei venuto con la curiosità positiva di capire cosa credo, ma sei venuto per perseguitarmi”. Chiede: “Come osate mettere la croce sul campanile?”. Boutros Pietro risponde: “Anche voi mettete la mezza luna sulle moschee” e lo ha messo in difficoltà.

Ho deciso di rimanere in silenzio perché nella liturgia siriaca quando presentiamo l’offerta sull’altare recitiamo il versetto biblico di Isaia: “era come agnello condotto al macello, come pecora muta di fronte ai suoi tosatori, e non aprì la sua bocca”. Quando Gesù ha vissuto la Via Crucis in silenzio era consapevole che in questa maniera obbediva al suo Padre Celeste e realizzava la sua volontà. Questo versetto è sempre stato molto importante nella mia vita e nel mio cammino spirituale, quindi ho sentito che il Signore voleva condividere con me questa sua esperienza. Di fronte a quelle provocazioni e parole dure rimanevo in silenzio perché sentivo di poter condividere anche una piccola parte del Vangelo e dell’esperienza di Gesù. Il Vangelo dice “Pregate per i vostri persecutori, benedite quelli che vi maledicono”: era un’occasione questo carcere che ho trasformato con la mia preghiera in un cenacolo, un’occasione per pregare e intercedere per i musulmani. Mi sono scordato di dire che quando ho deciso di mettermi in moto per aiutare le persone a Qaryatayn, non solo come dovere morale e religioso, volevo offrirmi per intercedere anche per la liberazione di padre Paolo. Quando scoprii di essere a Raqqa fui contento e mi dicevo:“ Forse mi metteranno insieme a padre Paolo, così condivido con lui il carcere”. Bisogna pregare tanto per padre Paolo, per i vescovi, i sacerdoti, per ogni sequestrato perché loro sono vivi. Non vuol dire che io so di certo che sono vivi, ma lo sento, con la mia intuizione, non ho nessun dubbio che loro siano ancora vivi e come Chiesa non dobbiamo chiudere il loro fascicolo, non dobbiamo abbandonare caso e accantonarlo, sento che il Signore ha permesso a me di tornare in libertà perché la Chiesa possa rimettersi in moto e rinnovare il suo impegno, con tutti i mezzi possibili, per fare qualcosa per loro. Dico questo alla presenza di sua eminenza il cardinale Sandri che vorrei che trasmettesse questo desiderio anche al Successore di Pietro, al Papa, perché si possa agire nella diplomazia vaticana e con gli altri stati, per poter fare qualcosa per questo caso.

D: P. Jacques, un’altra cosa che mi ha colpito è il fatto che tu, in una certa fase della tua prigionia, hai vissuto insieme agli stessi cristiani di Qaryatayn, anche loro fatti prigionieri dopo che ad agosto la città era caduta nelle mani di Daesh. Tu hai vissuto insieme a loro anche in situazioni particolari, nelle prigioni sotterranee. Là  tra l’altro c’erano cristiani cattolici e ortodossi, quindi avete pregato insieme avete vissuto insieme la vita di devozione, dei sacramenti. Papa Francesco fa spesso riferimento all’ecumenismo del sangue, la scoperta dell’unità dei battezzati messa ancora più in evidenza in questa situazioni. Puoi raccontare un po’ di questo aspetto, come lo hai vissuto in questi mesi di prigionia?

R: Il 4 agosto l’Isis ha preso possesso della città di Qaryatayn. C’erano diversi gruppi armati anche con la presenza dell’esercito e dei servizi segreti e delle varie fazioni combattenti sul terreno. Il 5 agosto alle 6 del mattino hanno cominciato a sequestrare i cristiani dalle loro case, bambini, vecchi malati handicappati, non hanno lasciato nessuno e li hanno deportati in una zona vicina a Palmira.

L’11 agosto entrò un saudita nella mia cella – eravamo 3 cristiani: io, Boutros e un altro della città di Samà – e ci hanno messi in un furgone e ci hanno portati verso gli altri cristiani che erano sequestrati, lì vicino a Palmira. Noi però non sapevamo dove ci portassero, non sapevamo niente. Ci hanno messi in una macchina e ci hanno portati lì. Siamo arrivati in un tunnel, ci siamo fermati lì, siamo scesi dalla macchina. C’era una grande porta di ferro alla fine del tunnel; hanno aperto la porta e trovai i cristiani in un grande dormitorio. Per me fu uno shock, forse il momento più difficile che abbia mai passato nella mia vita.

Prima di essere rapito avevo il presentimento che sarebbe accaduto qualcosa di grave, m non sapevo che cosa, soprattutto dopo che avevano preso possesso di Palmira. Avevo detto ai miei parrocchiani: “Se succede qualcosa a me i cristiani non devono rimanere qui, devono lasciare il posto”. In prigione stavo tranquillo perché pensavo. “Io li ho già avvisati, spero che loro abbiano fatto quello che ho detto”. Quando li ho visti è stato un grande shock per me. Dopo i 15 anni che passati nella loro città, avevo relazioni personali strette di vicinanza con ogni persona, con ogni bambino, sono i miei parenti, la mia famiglia. Il 1° di settembre ci hanno riportato a Qaryqatayn. Hanno fatto con noi una trattativa, un contratto di tutela. Ci hanno riportati alle nostre case; ovviamente le due chiese, la siro cattolica, la siro ortodossa, il monastero di Mar Elian e tutte le proprietà delle chiese sono state considerate bottino di guerra quindi non appartengono più a noi, ma allo stato islamico. Sono rimasto nelle case con le famiglie e cambiavo casa ogni tanto: era anche un’occasione per sostenerli, per incoraggiarli. Celebravamo la Messa in un sotterraneo, sotto un grande palazzo, che era l’unico posto un po’ sicuro. Oggi di fronte alla potenza dei mezzi di distruzione che si usano in questi tempi non c’è nessun posto che possiamo definire sicuro. Celebrare la Messa era una grande consolazione per tutti perché tutti sentivamo che la vita è per noi perché Gesù è la nostra vita e Lui è presente nell’Eucaristia che santifichiamo. Qui ho capito e sentito che la volontà di Dio è più forte di qualsiasi male che possa risiedere nel cuore degli esseri umani. Per me è stata una grande consolazione poter stare con la gente e poter celebrare la Messa con loro.

Il 9 di settembre è il giorno della festa di Mar Elian, san Giuliano, che è il patrono della città e della regione, venerato anche dai musulmani oltre che dai cristiani. Lì c’era la tomba del santo, venivano anche i musulmani, pregavano, accendevano candele, portavano offerte, chiedevano l’intercessione del santo. Se c’era qualche malato, soprattutto bambini, mi chiedevano di aprire il Vangelo, proprio fisicamente, in faccia al malato per chiedere la benedizione, e succedeva spesso, non una volta ogni tanto, spesso. Tre giorni prima della festa avevo visto la distruzione del monastero di Mar Elian, perché ero andato lì per seppellire una nostra parrocchiana che era malata ed è morta il 6 di settembre e il cimitero si trova proprio dentro il monastero. Siamo stati lì e ho visto quanta distruzione c’era. Quando mi sono fermato davanti a quella grande distruzione, alle rovine di quello che era il risultato di 15 anni di impegno nostro e di tante altre persone che ci hanno aiutato e hanno messo del loro sforzo, del loro denaro, non ho sentito né rabbia né tristezza, niente di negativo. Invece il giorno della festa del santo, durante la Messa, ho detto ai parrocchiani che san Giuliano ci ha redenti offrendo il suo monastero e la sua tomba come sacrificio per noi. È stata una Messa di ringraziamento al Signore per l’intercessione di questo santo. Ringraziai anche il Signore perché a nessuno dei cristiani che erano stati sequestrati è successo qualcosa di male, nessuno è stato ferito o picchiato, nessuno si è infiacchito e convertito all’Islam. Soprattutto perché la maniera violenta di parlare, la provocazione verbale, poteva spingere le persone di fede più debole a cedere e diventare musulmani. Il primo giorno di prigionia hanno mostrato loro un video di persone che tagliavano la testa ad altri, bambini che sparavano a persone sequestrate. I nostri bambini e le nostre donne hanno visto questo video e nonostante le pressioni, lo stress e i maltrattamenti, tutti sono rimasti fedeli alla propria fede. Nella Messa della festa ho anche detto: “Ringrazio il Signore oggi perché stiamo festeggiando insieme cattolici e ortodossi”, perché normalmente ogni parrocchia celebrava nella sua chiesa il giorno del santo. Per 15 anni avevo cercato sempre, ogni anno, di organizzare qualcosa in comune, coinvolgendo anche i due vescovi, il parroco dell’altra parrocchia per fare qualcosa in comune come segno della nostra unità e non ci siamo riusciti. Ringrazio il Signore che è venuto Daesh per farci unire. Per me è stata una grande consolazione; dopo la Messa, ho battezzato 3 bambini siro ortodossi, uno era nato durante il sequestro. La sofferenza può anche essere una via per avvicinarci gli uni gli altri. Io visitavo sempre gli ortodossi e i cattolici, andavo da tutti senza barriere. Le barriere le abbiamo alzate noi, la gerarchia, il clero; e devo dire anche che ogni domenica mi incontravo con il parroco siro ortodosso e mi donava il pane per l’offerta eucaristica, un pane cotto da lui ogni domenica, e me lo dava per consacrarlo anche nella nostra parrocchia.