Alienum phaedrum torquatos nec eu, vis detraxit periculis ex, nihil expetendis in mei. Mei an pericula euripidis, hinc partem.

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Centro Pastorale Missionario della Diocesi di Roma / Attività  / In «Nimetoke Italia!» il sangue e la speranza in Uganda

In «Nimetoke Italia!» il sangue e la speranza in Uganda

Nel libro del medico missionario De Feo un’esperienza lunga 30 anni. Il vescovo Zuppi: «Storie che ci aiutano a non essere indifferenti» «Nimetoke Italia!», ovvero «Vengo dall’Italia!», è questa la frase pronunciata per salvarsi dagli orrori della guerra in Uganda dai missionari e dai volontari italiani di fronte a chi altrimenti li avrebbe uccisi. Il ricordo delle violenze subite dallo stato africano di cui molti italiani sono stati vittime e testimoni è difficile da trasmettere, ma, grazie all’impegno del dottor Marco De Feo, è stato raccontato in un libro, “Nimetoke Italia!” appunto, presentato domenica 22 febbraio nella parrocchia dei Santi Martiri dell’Uganda. Il libro è un insieme di testimonianze, «quasi un libro inchiesta», spiega De Feo, perché unisce ai dolorosi racconti di prima mano, un tentativo di ricostruzione dei fatti, denunciando il ruolo del governo ugandese e gli «appetiti internazionali» di Coltan – minerale necessario per i telefonini – oro, petrolio. Ma se la complicità può essere di tutti, la forza è soprattutto di alcuni italiani che hanno fatto del loro meglio per aiutare. «Questo libro nasce da trent’anni di esperienza di missione in Africa e in Brasile, ma soprattutto in Uganda. In Uganda c’è stata una guerra per 27 anni, ho visto morire tantissimi volontari e missionari durante questa guerra, ma i media italiani non ne parlavano. Ho visto ospedali distrutti, rapimenti, ho cercato di raccogliere la memoria storica di questi eventi, perché non si dica che gli italiani siano i soliti codardi. Noi siamo rimasti, nessuno di noi ha ceduto mai. Nessuno di noi è scappato» ha raccontato De Feo, odontoiatra partito per l’Africa per la prima volta a 19 anni. Padre Fermo Bernasconi, superiore provinciale dei Comboniani nella Repubblica democratica del Congo, durante la presentazione ha commentato: «Ho lavorato tanti anni in Congo. Il nostro mondo è chiamato villaggio globale, ma non è vero. Alcuni fatti non attirano l’attenzione mediatica. Tutti i quotidiani hanno scritto dei morti dello Charlie Hebdo, ma dei duemila morti in Nigeria a stento ne parlavano. I comboniani uccisi in Africa sono stati 25, 13 in Uganda. Questo è un dono e diventa una provocazione: ci sono persone che hanno pagato con il dono della loro vita. E noi che restiamo qua? Dobbiamo conoscere». Monsignor Matteo Zuppi, vescovo incaricato del Centro diocesano per la Cooperazione missionaria tra le Chiese che ha partecipato alla presentazione, ha apprezzato molto il libro: «Mi ha colpito la prima frase: “Il peggior peccato contro i nostri simili non è odiarli, ma essere indifferenti”, lo scrisse Bernard Shaw ed è vero. Come ha raccomandato la lettera di Papa Francesco contro l’indifferenza, questo libro ci aiuta a non essere indifferenti, a non diventare spettatori. Papa Francesco ha chiesto a tutti di imparare a piangere. Il libro aiuta tanto a capire l’inaccettabilità dell’ indifferenza». La storia è cruda, e le scene descritte nel volume sono forti. Durante l’incontro, Fratel Mario Camporese, infermiere del Dr. Ambrosoli Memorial Hospital di Kalongo, ha raccontato la difficoltà di parlarne, ma nella testimonianza resa a De Feo e alla sala ha ribadito: «Non sarà servito a molto, ma abbiamo donato speranza. Bisogna ricordare, perché se tu torni in un posto anche dopo dieci anni e c’è la pace, la pace non è arrivata così per caso. Chi non vuole ricordare deve essere rispettato, ma il fare memoria credo sia la cosa più importante per dire che quello che è accaduto non deve più succedere». 23 febbraio 2015

(articolo da Romasette.it, di Vanessa Ricciardi)