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Centro Pastorale Missionario della Diocesi di Roma / In diocesi  / Omelia dell’arcivescovo Angelo De Donatis per la Veglia Missionaria diocesana

Omelia dell’arcivescovo Angelo De Donatis per la Veglia Missionaria diocesana

Omelia pronunciata dall’arcivescovo Angelo De Donatis

in occasione della Veglia Missionaria diocesana

Basilica di San Giovanni in Laterano, 19 ottobre 2017

Grazie per il dono delle vostre testimonianze.

Vogliamo insieme accogliere questa luce che ancora la Parola di Dio ci dona in questo momento di preghiera, che stiamo vivendo insieme questa sera. Incontriamo ancora una volta lo sguardo di Gesù, questo sguardo di Gesù che si rivela nella sua compassione. «Vedendo le folle, ne sentì compassione perché erano stanche e sfinite come pecore che non hanno pastore». E qui colpisce questo fatto, perché quello che opprime queste pecore non è solo la fatica, non è soltanto l’indigenza. Quello che le affatica è soprattutto l’assenza di qualcuno che si prenda cura di loro. Non hanno un pastore.

Manca un pastore capace di farsi carico della loro stanchezza, capace di condurli «a pascoli erbosi», riposanti, quindi manca chi raduni il gregge, manca chi possa custodire il gregge nell’unità: ecco da dove nasce lo sfinimento di queste pecore, nasce dalla dispersione che vivono. Quindi dietro la loro stanchezza c’è un bisogno di relazione, ma che rimane deluso. Nessuno si preoccupa di radunarle, nessuno le aiuta a intessere legami veri. Ecco da dove nasce lo sguardo di Gesù che si rivela nella compassione. È questo lo sguardo di Gesù sulla nostra vita. Questo suo amore compassionevole genera sempre una chiamata e genera un servizio.

La cosa bella è che Dio ci ama ma che non ci trattiene per sé. Non ci trattiene, non è come il nostro amore il suo, perché il nostro amore è sempre tentato di “trattenere”, quando è invischiato nei suoi egoismi, nelle sue visioni individualistiche, solitarie. L’amore di Dio non è così, l’amore di Dio ci consegna agli altri, perché anche loro, come è stato sottolineato in maniera molto belle nelle testimonianze, perché anche loro, attraverso di noi, possano percepire lo stesso sguardo di tenerezza e di compassione. Dio non ci trattiene per sé. Allora dallo sguardo di compassione di Gesù viene generato l’invio dei discepoli, perché, se leggiamo poi il seguito del Vangelo, avviene proprio questo: i Dodici vengono consegnati alle pecore perdute d’Israele, con il potere di scacciare gli spiriti impuri, di guarire le malattie e le infermità, di proclamare che il Regno è vicino.

Ecco allora come la compassione di Gesù suscita la responsabilità dei discepoli. Accadrà anche più avanti, nel Vangelo di Matteo, nell’episodio della prima divisione dei pani. Anche in quell’occasione Gesù sentirà compassione per le folle, guarirà i loro ammalati, sazierà la loro fame. Ma lo farà come? Coinvolgendo i discepoli, dopo aver chiesto loro di portargli tutto quello che avevano, anche se poco, rispetto alla fame di tanta gente. Prenderà i pani, i pesci, e dopo aver benedetto il Padre, li darà ai discepoli perché siano proprio loro a darli alle folle. Allora la compassione di Gesù genera l’impegno dei discepoli, come qui genera il loro invio in missione. A queste pecore disperse, Gesù dona dei pastori. E pensiamo che i cinque pani e due pesci sono niente per la fame di questa gente, niente, poca cosa. Questi dodici uomini sono nulla per la vastità della mèsse. È stato già sottolineato questo nelle testimonianze.

La mèsse è abbondante, ma sono pochi gli operai, però Gesù non esita a mandarli, come non esita a spezzare il poco pane che gli viene dato. Allora, in tutti e due i casi, Gesù lo fa dopo aver pregato. Nell’atto di dividere il pane, alza gli occhi al cielo e benedice il Padre, e adesso prega e chiede di pregare perché il Padre mandi operai nella sua messe. Allora la sproporzione tra il numero degli operai e la vastità delle messe non è soltanto un problema dei nostri giorni, non è così, lo sappiamo bene, è una realtà vera da sempre, fin dal primo inizio della missione. Però dobbiamo dircelo questo: è una sproporzione necessaria, è necessaria, costitutiva della missione stessa, affinché la missione sia vissuta nella logica della croce e nella logica dell’affidamento a Dio, non nella confidenza nelle proprie risorse e nelle proprie possibilità. Anche per questo motivo è necessaria la preghiera, non solo perché Dio invii altri operai, ma come ci diceva don Daniele, perché coloro che già lavorano nella mèsse, vivano il loro impegno confidando in Dio e non in se stessi, e lo vivano dunque nella preghiera. Però con questa certezza: pregare significa lasciarsi inviare. Confidare in Dio non ci solleva, confidare in Dio ci conferma nelle nostre responsabilità.

E allora vorrei ricordare un versetto che mi ha sempre dato tanto coraggio, tanta pace nella vita: «Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date». Portiamolo nel cuore questo versetto, lasciamo che lo Spirito Santo lo scriva a lettere cubitali. Il dono di Dio ci rende responsabili e ci chiama a donare con altrettanta gratuità. Questa è la bellezza del volto dei discepoli, la bellezza dei nostri volti, la bellezza del nostro impegno. Veniamo inviati per essere segno della compassione stessa di Gesù.

Che bello! Dovremmo sentirci orgogliosi di tutto questo, santamente orgogliosi. Inviati per essere segno della compassione stessa di Gesù. Allora ritorna quello che è stato sottolineato, essere sacramento di salvezza.

È questo che chiediamo al Signore pregando, questa sera, in questa Veglia missionaria. Vogliamo farlo proprio con una fiducia immensa questa preghiera, e che il Signore ci renda, così come vuole Lui, segno della sua compassione.